23 de marzo de 2011

EDITORIAL EN LA REVISTA ITALIANA LOOP

La marcha de las mujeres africanas, las contradicciones y la determinación

En un momento el ruido es tan exasperado que alguien ataca a la música. Reggae tiene un efecto calmante en cualquier latitud y todos comienzan a bailar, se enfrenta a más relajado ahora. Pero no duró mucho tiempo: reunir experiencias, lenguajes y culturas no es un paseo, y la batalla se vuelve difícil, especialmente entre el Magreb y el resto. Olvídese de juego limpio, que se encuentran en África.

Cronaca eccitante ma non esente da perplessità dell’incontro delle donne a Dakar. L’occasione è il Forum Sociale ma se sono arrivate fino qui è grazie all’organizzazione della Marcia mondiale delle donne, che tesse alleanze attraverso i confini: una rete femminista internazionale contro la violenza e la povertà, che tiene insieme più di seimila associazioni in centocinquanta paesi del mondo (www.marchemondiale.org) e che ora ha chiamato a raccolta le africane in un’assemblea generale, per un confronto che dovrebbe culminare in una dichiarazione ufficiale congiunta sugli obiettivi comuni. Sotto il tendone stracolmo di gente si soffoca e le zanzare prosperano, anche se è solo mezzogiorno. Tengono banco le padrone di casa dell’Afard, l’Association des Femmes Africaines pour la Recherche et le Developpement, nato proprio a Dakar nel ’77 per migliorare la condizione femminile e cambiare gli equilibri (o, meglio, i disequilibri) di genere nelle società africane, affiancate dalle magrebine, ed è subito chiaro che nessuna, qui, vuole fare un passo indietro. Si parla del ruolo delle donne nell’economia di villaggio, della capacità di utilizzare le poche risorse disponibili e di reinventarsi, anche con piccoli lavori, in un momento di crisi che ha costretto molti capofamiglia alla disoccupazione. La determinazione a trarre le conseguenze politiche e sociali di questo cambiamento è palpabile: i rapporti di forza all’interno della famiglia stanno cambiando, le donne sono in primo piano in questo continente in movimento, capaci di lottare per la pace e per la sopravvivenza. Ben lo sa il Cipsi e ChiAma l’Africa, che proprio quest’anno hanno proposto che il Nobel della Pace venga attribuito a tutte le donne africane (www.noppaw.org). I pochi uomini, nelle retrovie, sono seduti e sogghignano. Le occidentali stanno in piedi, sul fondo anche loro, ma si alzano sulla punta dei piedi per capire, battono le mani, parteggiano, scattano foto.

Il documento è pronto da un pezzo ma l’incaricata non riesce a leggerlo, continuamente interrotta: la discussione dal francese passa all’arabo, al wolof e degenera in un’incomprensibile babele di lingue locali. Infine le magrebine si impongono e le parole d’ordine vengono scandite: no a ogni forma di sfruttamento di genere, no alla corsa agli armamenti, alle guerre, ad una società che mette le donne al margine, no ai matrimoni forzati e alle spose bambine, no alla violenza sessuale. “Chiediamo con forza – dicono – l’applicazione effettiva della Tobin Tax, l’annullamento del debito, l’accesso alla terra, alle risorse produttive e al mercato. Vogliamo un mondo con gli stessi diritti per uomini e donne, la libera circolazione delle persone, l’accesso alla comunicazione, salute e maternità garantite”. “Siamo solidali con le donne della Casamance nel sud del Senegal, con le palestinesi, le tunisine, le egiziane, le curde, le congolesi, le pakistane, le donne che lottano per ricostruire Haiti e tutte le donne e i bambini rifugiati ed esiliati”. E qui scoppia di nuovo un boato, le donne Saharawi lamentano di non essere state nominate e di non aver potuto esprimere la propria protesta. Mentre si scioglie l’assemblea al grido scandito di “Solidarité avec les femmes du monde entier”, lo scontro si fa personale. Fatimetu Zrug Jomani, parlamentare saharawi, accusa direttamente le donne marocchine di aver sabotato la partecipazione delle subsahariane al dibattito. Circola la voce che al Forum siano venuti anche molti flic marocchini, con l’intenzione di “tenere la situazione sotto controllo”. E’ un fatto che l’eccitazione per le rivoluzioni in Egitto e in Tunisia ha mantenuto un po’ sotto tono le rivendicazioni di altre donne africane. Le saharawi, in particolare, sono venute in tante, sostenute dall’Afapredesa, Asociación de Familiares de Presos y Desaparecidos Saharauis (www.afapredesa.org), per denunciare la violazione dei diritti umani nei territori occupati. Fatimetu è furiosa: “Non abbiamo fatto tanta strada per venire a farci zittire dalla polizia marocchina”, dice. Racconta della sua terra, lacerata da un conflitto di cui non si vede la fine: “Il muro ha spezzato le famiglie, i genitori da una parte, i figli dall’altra; c’è chi ha perso il lavoro e la casa, abbiamo dovuto riorganizzare scuole e ospedali. Mia figlia è nata in un campo profughi, non c’erano nemmeno gli strumenti essenziali per il primo soccorso, è un miracolo che sia viva”. Accanto a lei una donna giovane, poco più che una ragazza, ascolta con un’espressione grave in volto. “Mio fratello è stato ucciso dalla polizia marocchina con un colpo in testa e uno nel cuore”, dice, portandosi il dito alla fronte e al petto. Si chiama Yamila Sid Ahmad, suo fratello Said aveva solo 26 anni quando, una sera poco prima di Natale, è stato ammazzato senza un motivo mentre usciva, disarmato, da un cyber café della capitale El Aayùn. In un primo momento non si sa nemmeno che è morto: dall’ospedale Ben El Mehdi arrivano notizie confuse, contradditorie. Prima dicono che è in coma, poi che è effettivamente deceduto, ma che si è trattato di un “incidente”. La famiglia viene invitata a portarsi via il cadavere senza fare tante domande: “Ci hanno offerto del denaro per farci tacere – racconta Yamila – ma noi insistiamo perché venga fatta l’autopsia e si sappia che la polizia ammazza, che viviamo in uno stato di terrore”. Così ora tutto è congelato, in attesa del risultato delle indagini. “Sono passati due mesi e non ci ridanno il corpo – dice Yamila ormai in lacrime – i miei genitori sono anziani, distrutti dal dolore e non possono nemmeno seppellire il figlio”.
Fuori, si improvvisa una marcia attraverso il campus universitario che ospita il Forum Sociale. Si avverte esaltazione e stanchezza. Seynabou Male Cisse, la coordinatrice del Comitaté Régional de Solidarité des Femmes pour la Paix en Casamance (www.usoforal.org), mi confessa che tutti i suoi incontri sono stati sabotati. Disorganizzazione, mancanza di spazi, disaccordo fra gli organizzatori, il rettore, le autorità locali. Poi chissà, il fatto che lei dica parole scomode sulle responsabilità del governo senegalese, che da 28 anni non riesce a risolvere la guerra fratricida nel sud del paese, qualcosa ha contato. Le contraddizioni della politica, persino qui, pesano; così come la difficoltà ad armonizzare istanze giuste e prioritarie per tutte le donne con la realtà quotidiana di ognuna, spesso fatta di conflitto e di lotta per la sopravvivenza. Più forte – c’è da sperarlo – resta l’urgenza di proseguire unite, nonostante tutto.


Fuente:   looponline.info

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